RITORNO A GERUSALEMME…



Si parte da Gerusalemme (ognuno dalla propria Gerusalemme!), un partire che è, il più delle volte, un “fuggire” dal luogo dell’incontro, da uno spazio di comunione divenuto angusto per l’esperienza di morte, di solitudine, di abbandono che travolge e spinge altrove, ancora in ricerca, senza sosta, senza la capacità di riconoscere una Compagnia.
Emmaus è il racconto di un “passaggio”: il passaggio di due discepoli di Gesù da una conoscenza frammentaria, parziale, miope di Cristo, così come l’avevano elaborata in base ad una loro limitata capacità di comprensione delle realtà che avevano vissuto, ad una conoscenza “travolgente”.
“Due di loro”, ci dice il Vangelo, due che avevano fatto parte di quella piccola comunità di credenti, in seguito ai fatti drammatici dell’arresto e della morte del Maestro, lasciano, delusi, Gerusalemme: un allontanamento che ha il sapore della sconfitta, per un sogno che sembra ormai infranto.
La loro conversazione, strada facendo, è fonte di discussione tra i due: è un voler capire l’evento della morte che sembra contrastare con la speranza di un mondo giusto. Alla base della loro delusione c’è un’immagine del Figlio di Dio artefatta, di quelle che troppo spesso il credente si costruisce nella propria mente: di un Dio, cioè, a propria immagine e somiglianza, dispensatore di favori di fronte alle incessanti richieste di benessere che impunemente chiamiamo “preghiere”.
“Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”, confidano i due allo sconosciuto che li accosta durante il cammino. L’attesa veterotestamentaria di un Messia liberatore, che potesse restituire prestigio ad Israele manifesta l’idea di un Dio politicamente potente, inattaccabile dalla realtà di sofferenza e morte che, invece, ha avvolto Gesù.
Cristo, per questi due discepoli, è un uomo morto, nonostante la testimonianza di alcune donne che hanno trovato il sepolcro vuoto. La crocifissione è il segno tangibile di una sconfitta che non può riguardare Dio.
I due discepoli di Emmaus hanno visto un “Crocifisso”, una vittima di un sistema oppressivo incarnata nella chiesa ufficiale del tempo, il Sinedrio, che nella persona del Sommo sacerdote, aveva condannato con un regolare processo un uomo giusto. I due, però, non sono capaci di ritrovare in Cristo l’immagine del Servo sofferente che si fa carico della croce come di uno strumento di salvezza, che affronta la morte come il gesto supremo di chi si dona senza misura per la vita di un altro; come afferma P. Claudel: “tutta la sofferenza che c’è nel mondo non è la sofferenza dell’agonia, ma il dolore del parto”.
Il Risorto che affianca i due nel loro triste cammino di allontanamento, getta una luce nuova sugli eventi; Cristo risorto, che non viene riconosciuto subito, spiega loro le Scritture: abbatte in loro quell’idea di messia politico proclamando la Parola di una vita che fiorisce da un morire per amore.
I due discepoli riacquistano speranza dall’ascolto della Parola: troppo spesso chiediamo dei “segni” e la nostra fede, così, diventa arida per l’assenza di quegli interventi “miracolistici” di cui vorremmo piena la nostra esistenza. Cerchiamo un Dio alla portata delle nostre esigenze e rimaniamo in ascolto di noi stessi, precludendoci l’esperienza di un incontro che apre ad una vita nuova. Ma l’ascolto della Parola prepara i due, e noi tutti radunati intorno ad una stessa mensa, a riconoscere il Cristo nello spezzare il pane: Gesù viene riconosciuto non per le sue sembianze fisiche, Gesù viene riconosciuto per un gesto ripetibile per sempre, un gesto tanto semplice quanto impegnativo ed emblematico, il gesto del condividere il pane, del condividere la vita, del fare della propria vita un dono spezzato nella quotidianità per gli altri. Il Risorto è il Crocifisso.
Ora sì che è possibile tornare a Gerusalemme…


M. Concetta Bomba ocds


Commenti