In sospensione di giudizio


 

 

Ho fatto delle foto.
Ho fotografato invece di parlare.
Ho fotografato per non dimenticare.
Per non smettere di guardare.

Daniel Pennac

 
E’ così, con questi sentimenti, con questa riflessione letta e assimilata che attraverso la soglia di un luogo che so contenere immagini stampate di vita reale; evocazioni di un vissuto che se all’origine non è mio, lo diviene nell’istante in cui freno il mio andirivieni e “sosto”, immobile e con lo sguardo fisso, di fronte ad uno spaccato di realtà ritagliato, circostanziato, incorniciato in modo non affatto casuale.
So che le immagini (foto!) che andrò a vedere mi getteranno, in un colpo solo, dentro un mondo condiviso: saranno luoghi e situazioni mai visti, presumibilmente, e persone mai incontrate; ma sarà pur sempre un brandello di vita che ha il potere di comunicare in modo empatico il vissuto di un altro, di chi ha colto l’immagine e di chi dentro l’immagine ci sta suo malgrado.
E dentro questo vissuto estraneo, all’improvviso, ci trovo il mio vissuto personale: la mia vita, con tutto ciò che ho subito e tutto ciò che ho scelto di vivere.
16 novembre 2014: Roma, Museo dell’Ara Pacis, mostra fotografica di H. C. Bresson.
Entro impaziente di “vedere”, di riempire occhi, cuore, anima e di uscirne migliore.
Qualche mese prima, giugno 2014, un’altra mostra: Milano, “GENESI” di S. Salgado.
Ho ancora negli occhi quella prima mostra; entro da Bresson, ma porto con me, viva, l’esperienza vissuta di fronte a Salgado.
Avrei dovuto operare l’epochè, quel mettere tra parentesi ogni cosa, quel rimanere in “sospensione di giudizio”, guardare in visione originaria e cogliere direttamente, come un fulmine a ciel sereno, la cosa in sé, il dato in carne ed ossa, esattamente così come mi si mostrava.
Invece no.
Non ce l’ho fatta.
Non subito.
Entro da Bresson, dicevo, e ho ancora gli occhi pieni di Salgado; e già noto, inevitabilmente, una stonatura inaspettata.
Non vedo, ora, grandi immagini, foto che ti spiazzano già a distanza per dimensioni, per scenari lontani dalla tua quotidianità, per un contenuto di nuova specie.
Ora, da Bresson, vedo una prevalenza di parete bianca: in lontananza non riesco a decifrare quelle immagini che già conosco, tanto sono piccole le sue dimensioni. Devo avvicinarmi, e pure tanto.
Sono obbligata, ora, ad accorciare le distanze tra me e l’immagine, giacché non mi si impone: discretamente è lì, discretamente mi attende.
In realtà potrei tranquillamente attraversare le sale e ignorare il  tutto: ogni foto per essere “vista” chiede un contatto ravvicinato.
Non era così per Salgado.
Non potevo non vedere.
Non avevo scelta.
Ero bombardata da quel mondo incontaminato che Salgado aveva fotografato come forma di rinascita, di speranzosa ripresa di fronte alle brutture di cui solo l’uomo è capace.
Mi fermo.
Provo a ricominciare daccapo con un approccio diverso.
In sospensione di giudizio, questa volta.
E’ Bresson.
E’ l’umanità fotografata da Bresson: quella umanità che incontri per strada, che osservi curiosa, che cerchi di capire e di afferrare nella sua intimità.
Dentro ogni foto una storia: la tua storia evocata, lasciata partorire ogni volta dal contatto con la storia di un altro.
La potenza delle foto!
Quella capacità unica di passare attraverso gli occhi per movimentare il pensiero ed orientarlo verso un universo condiviso di umanità, di esaltazione e di sofferenza, di amore e di dolore, di rilassatezza e di disagio allo stesso tempo.
Bresson non è Salgado.
Ma l’umanità è la stessa, nella sua grandiosità e nella sua piccolezza: una foto può essere in grado di comunicartelo.
Non sempre.
Queste sì.
Bene. Voglio continuare a fotografare.
Proverò a farlo così.

 
M. Concetta Bomba

 

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