REPORTAGE...




Domenica, 23 febbraio 2014: L’Aquila.
Sappiamo bene ciò che è accaduto pochi anni fa; abbiamo visto, sentito e poi accolto (chi più chi meno ) qualcuno in fuga da una città divenuta all’improvviso inospitale. Talmente inospitale da trasformare i luoghi del vissuto quotidiano in terre aride, incapaci di continuare a alimentare quella vita che, sola, può rendere una casa lo spazio primordiale dell’incontro con l’altro.
Le case ci sono ancora a L’Aquila; di molte riesci a vedere l’interno che, per uno scherzo del destino, sono rimaste senza l’involucro che ne garantiva l’intimità. Di molte altre le facciate sono intatte, ma strette dentro imbracature talmente avvolgenti da far pensare, immediatamente, a un grande abbraccio che sostiene per non lasciar cadere ciò che da solo, con le proprie forze, non ce la fa più a rimanere in piedi.
Allora attraverso il corso principale e vedo questo portone: semi aperto, con una grossa catena che trattiene l’uscio dal naturale movimento dello spalancarsi ad accogliere o, anche, a lasciare andare via…
Penso all’impossibilità di continuare ad abitare quel luogo: la catena mi urla in faccia la chiusura “forzata” di quel posto, quella inagibilità che esprime il rimanere “senza”, dove il “senza” è riferito a spazi, oggetti, ricordi, sensazioni, rituali, persone…
Ciò nonostante un passaggio lo intravedo: forzato, furtivo, momentaneo, questo non mi è dato sapere; ma intuisco la voglia caparbia di continuare a oltrepassare quella catena per tornare (e nuovamente uscire) da un posto che non è dato più abitare.
Tu, io: lo sappiamo bene dentro quante costrizioni ci muoviamo…lo so bene, come lo sai anche tu, che spezzare quelle catene diviene un gesto vitale di sopravvivenza, di estremo tentativo di cercare libertà. Che sia da ogni forma di dipendenza, da costrizioni mentali, da pregiudizi sociali, dall’ignoranza, dalla cecità: oltre la catena ci deve pur essere uno spazio in cui poter guardare la realtà con lo sguardo estatico di chi ne intravede il senso ad ogni sfaccettatura.
Ma libertà è anche voglia di fuggire via, di abbandonare ciò che costringe e che, in qualche modo, blocca i movimenti.
Restare o andare via: perpetuare la permanenza dentro la propria prigione oppure aprire l’uscio per l’ennesimo tentativo di ricerca di nuova vita.
Al di là dell’uscio incatenato, il mondo intero, fiumane di persone, ognuna con il proprio vissuto, ognuno con il peso della ferraglia da spezzare.
Una possibilità: l’incontro, fuori. Tu, io: niente di più, niente di meno.
Un procedere insieme nel fare a gara a indicarsi brandelli di luce e spazi di colore in bianco e nero.

M. Concetta Bomba



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