Tra il decidere di stare dentro o fuori sta, perentorio, il diktat. Assenza di possibilità. Da entrambe le parti: già il contagio, con la sua forza propagativa, blocca e dice le parole del tenersi a distanza; lo stesso linguaggio usato da chi impone di rimanere dentro il perimetro della propria abitazione a colpi di decreti .
Anche se si volesse scegliere, cinicamente o con sfrontatezza stoica, di non giacere sotto lo scacco della paura, non è concesso farlo.
La voce urlante dai megafoni instilla la convinzione che quello che dovresti decidere tu, per la tua vita e per la vita degli altri, sia un abuso.
Il pericolo, di qualunque fattura, mi ha sempre gettato addosso le parole della prudenza regolando, di volta in volta, scelte di movimento, prese di coscienza, autoimposizione di brusche frenate.
Non ora.
Non solo. L’elemento nuovo, inaspettato, è il grido imposto dello stare a casa.
Imposto. Con la forza delle sanzioni.
E’ vietato. Non lo decido io. Non lo decidi tu. Lo ha già scelto per te qualcun altro: suona male. Suona come d’altri tempi, di quelli vissuti tra una botta di potere e una paralisi d’azione.
Qualcuno osa gridare, con la veemenza di chi conserva uno spiraglio rivoluzionario, all’anticostituzionalità.
Di certo non siamo in condizione di decidere: né di scegliere le modalità dell’evitamento del contagio, né di affrontare lo stato d’emergenza con la ponderatezza dettata dal buon senso.
Una libertà defraudata: vuoi per l’incapacità di tanti di guardare al di là del proprio orticello che, se lasciati liberi, finirebbero per danneggiare anche gli altri; vuoi per la mania di potere di chi è collocato più in alto che non trova altri mezzi per limitare i danni di una gestione passata della cosa pubblica alimentata appunto dal coltivare quell’orticello privato (e il circolo diventa vizioso).
Saprei restarmene a casa comunque.
Saprei evitare di ridurre le distanze, per un po’.
Avrei preferito le parole della condivisione responsabile: “Ti esorto a rimanere a casa”; “TI supplico di rimanere a distanza”.
Poi lo scempio letto e ascoltato dei tanti giustizieri della rete, prigionieri e carnefici allo stesso tempo: gente indaffarata nella caccia al dissidente, pronta a rinforzare l’azione punitiva dell’esercito della salvezza. Illusione di massa sbandierata dietro l’hashtag contagioso dello slogan “Io resto a casa”.
Avrei preferito le parole della responsabilità condivisa e dei divieti dettati dal buon senso. Ma non è roba all'italiana.
Noi siamo il popolo che "rinchiude i bambini e libera i cani" (insieme ai loro proprietari), che si accanisce contro il runner solitario ma riempie i supermercati, che impone la mascherina ma ha impiegato settimane per farla arrivare.
A casa ci resto.
Ma una imminente liberazione la vedo dura.
M. C. Bomba
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