E. Stein conosce l’amico polacco Roman Ingarden nel 1916, nel gruppo dei giovani fenomenologi di Gottinga. Si frequentano quotidianamente fino al 1917; dopo di che Ingarden riparte per
E. Stein esprime liberamente tutta l’amicizia-amore che la lega a R. Ingarden: si tratta comunque di un legame drammatico, intriso di incomprensioni e chiusure da parte dell’amico. La corrispondenza ha inizio con l’invio frequente di lettere, due anche tre volte a settimana; si scambiano opinioni sui loro lavori filosofici, discutono di questioni fenomenologiche e interpretano la tragica situazione storica che si trovano a vivere. Edith, pur nella lontananza, comunica all’amico con trasporto affettivo; firma quasi tutte le sue lettere, anche le ultime inviate dal Carmelo, facendo precedere il suo nome dal pronome possessivo: “sua Edith”. E’ amareggiata quando non riceve per lungo tempo notizie dal suo amico e lo esorta ad accorciare i tempi della risposta. Medita sui silenzi e sulla freddezza della personalità di Ingarden: “Guardi, tutte
I due incarnano modi completamente differenti di pensare all’amicizia. Per Edith amare l’amico significa partecipare alla sua vita, ai suoi sentimenti, alle sue scelte, condividere le sue vicende, sostenerlo con partecipazione affettiva. Ingarden si pone con estremo distacco nei confronti degli eventi che vive
Ciò nonostante Edith si mantiene fedele a quel legame: “Continui ad essere mio amico; se mi occupo delle Sue faccende personali come se fossero le mie, non lo consideri come una violazione della Sua libertà; e mi lasci credere che tutto ciò che per me ha un qualche significato, non le sia del tutto indifferente. Forse le mie parole sono troppo dure, ma Lei sa, non è vero, come vanno intese? Inoltre sento che in Lei tutto nasce dalle profondità del cuore e per tale motivo La ringrazio” (lettera n. 53).
R. Ingarden non riuscirà a comprendere la conversione della sua amica, non sarà in grado di condividere, né con la sua presenza fisica, né con una partecipazione interiore, la scelta del Carmelo. Edith commenterà così l’assenza dell’amico tanto amato: “Per la mia bella festa di vestizione (15 aprile 1934) ho ricevuto da lei soltanto come surrogato un augurio molto acido. Adesso una goccia d’aceto in un mare di dolcezza non serve a molto. Ma comunque mi dispiaccio per Lei che non ha partecipato alla mia gioia” (lettera n.160).
“Amare” implica il compiere il tentativo di liberarsi dalle pesanti catene che attanagliano, di uscire fuori dai nascondigli dentro i quali ci si rintana per mettere al sicuro i propri sentimenti, bloccati da innumerevoli paure: paura di mettersi in discussione, di apparire per quello che si è veramente, paura di affrontare le strettoie delle proprie miserie e limiti, paura di lasciarsi travolgere dalla gratuità di un gesto donato.
In opposizione ad una cultura del “sospetto” che tiene l’altro a distanza, osservato ed analizzato con sguardo giudicante, riteniamo il rapporto amicale lo spazio dentro cui sperimentare, in maniera tangibile, la mistica dell’Incontro.(Edith Stein, Lettere a Roman Ingarden 1917-1938, Libreria Editrice Vaticana, 2001)
M. Concetta Bomba ocds
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