Lettere ad un amico...

E. Stein conosce l’amico polacco Roman Ingarden nel 1916, nel gruppo dei giovani fenomenologi di Gottinga. Si frequentano quotidianamente fino al 1917; dopo di che Ingarden riparte per la Polonia. Da quel momento danno inizio ad un rapporto epistolare che durerà fino al 1938: durante tutti quegli anni si incontrano ancora solamente due volte. Un legame, dunque, vissuto, elaborato, interiorizzato nella forma scritta, per mezzo, cioè, di una comunicazione maggiormente meditata, fatta di parole accuratamente ricercate, rese strumento di un senso pensato ed espresso, con la libertà che proviene dal non sentirsi vincolati dall’incontro con un possibile sguardo reificante: “Qualche volta penso che Lei debba sembrare una persona molto stravagante e lunatica, e non senza ragione. Per mitigare questa impressione posso soltanto dire che Lei è l’unica vittima dell’irrazionalità che è in me, e che io al contrario nei confronti di tutto il mondo mi comporto in modo terribilmente razionale. Tanto razionale che considererebbero forse le mie lettere come una falsificazione, se Lei un giorno avesse intenzione di pubblicarle. Allora si guardi dal farlo!” (lettera n.38).

E. Stein esprime liberamente tutta l’amicizia-amore che la lega a R. Ingarden: si tratta comunque di un legame drammatico, intriso di incomprensioni e chiusure da parte dell’amico. La corrispondenza ha inizio con l’invio frequente di lettere, due anche tre volte a settimana; si scambiano opinioni sui loro lavori filosofici, discutono di questioni fenomenologiche e interpretano la tragica situazione storica che si trovano a vivere. Edith, pur nella lontananza, comunica all’amico con trasporto affettivo; firma quasi tutte le sue lettere, anche le ultime inviate dal Carmelo, facendo precedere il suo nome dal pronome possessivo: “sua Edith”. E’ amareggiata quando non riceve per lungo tempo notizie dal suo amico e lo esorta ad accorciare i tempi della risposta. Medita sui silenzi e sulla freddezza della personalità di Ingarden: “Guardi, tutte la Sue lettere dopo la nostra separazione sono stranamente vuote e denotano un’assenza di partecipazione interiore, così come accade quando non si scrive per bisogno ma per dovere. Direi che sono ipersensibile sotto questo aspetto – sono molto critica rispetto a tali impressioni – se non avessi fatto il confronto con le Sue lettere dell’anno scorso, che mi facevano partecipare veramente alla Sua vita. Non pensi che la rimproveri. Capirei benissimo se Lei avesse perso la Sua spontaneità nei miei confronti della qual cosa sarei colpevole io sola. Però il distacco è stato tanto doloroso per me – da parte mia ho dovuto fare violenza su me stessa per tenere a freno tutta la mia personalità – che mi sono proposta di aspettare per vedere se finalmente arrivava una lettera vera” (lettera n.32).

I due incarnano modi completamente differenti di pensare all’amicizia. Per Edith amare l’amico significa partecipare alla sua vita, ai suoi sentimenti, alle sue scelte, condividere le sue vicende, sostenerlo con partecipazione affettiva. Ingarden si pone con estremo distacco nei confronti degli eventi che vive la Stein, dei suoi percorsi esistenziali, della sua scelta religiosa; le si rapporta con la chiusura di chi è incapace di un legame di condivisione piena, incatenato alle ristrettezze della propria pochezza mentale. Ingarden intrattiene con Edith discussioni esclusivamente di tipo intellettuale, non la rende partecipe degli avvenimenti importanti della sua vita (le tiene nascosto il suo fidanzamento, le accenna del suo matrimonio a cose fatte e le parla raramente dei suoi figli).

Ciò nonostante Edith si mantiene fedele a quel legame: “Continui ad essere mio amico; se mi occupo delle Sue faccende personali come se fossero le mie, non lo consideri come una violazione della Sua libertà; e mi lasci credere che tutto ciò che per me ha un qualche significato, non le sia del tutto indifferente. Forse le mie parole sono troppo dure, ma Lei sa, non è vero, come vanno intese? Inoltre sento che in Lei tutto nasce dalle profondità del cuore e per tale motivo La ringrazio” (lettera n. 53).

R. Ingarden non riuscirà a comprendere la conversione della sua amica, non sarà in grado di condividere, né con la sua presenza fisica, né con una partecipazione interiore, la scelta del Carmelo. Edith commenterà così l’assenza dell’amico tanto amato: “Per la mia bella festa di vestizione (15 aprile 1934) ho ricevuto da lei soltanto come surrogato un augurio molto acido. Adesso una goccia d’aceto in un mare di dolcezza non serve a molto. Ma comunque mi dispiaccio per Lei che non ha partecipato alla mia gioia” (lettera n.160).

“Amare” implica il compiere il tentativo di liberarsi dalle pesanti catene che attanagliano, di uscire fuori dai nascondigli dentro i quali ci si rintana per mettere al sicuro i propri sentimenti, bloccati da innumerevoli paure: paura di mettersi in discussione, di apparire per quello che si è veramente, paura di affrontare le strettoie delle proprie miserie e limiti, paura di lasciarsi travolgere dalla gratuità di un gesto donato.

In opposizione ad una cultura del “sospetto” che tiene l’altro a distanza, osservato ed analizzato con sguardo giudicante, riteniamo il rapporto amicale lo spazio dentro cui sperimentare, in maniera tangibile, la mistica dell’Incontro.(Edith Stein, Lettere a Roman Ingarden 1917-1938, Libreria Editrice Vaticana, 2001)

M. Concetta Bomba ocds

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