L’ORGOGLIO SPIRITUALE


L’accostamento “filosofia-Teresa di Lisieux” può sembrare ardimentoso sia per la filosofia stessa che ricerca nel rigore di argomentazioni “intelligibili”, che per Teresa, il cui linguaggio è talmente “banale” da far scappare a gambe elevate l’illuminato pensatore. Se Cartesio predilige la figura del filosofo “dubbioso”, che rade al suolo l’intero edificio della conoscenza per ricostruire da zero, con un colpo di autofondazione, Teresa, dal canto suo, se ne sta in disparte dalle dispute filosofiche, eppure è lì silenziosamente a consolare chi, dal dubbio del Cogito, è rimasto a mani vuote.
Leggendo gli Atti di un Convegno Internazionale svoltosi a Lisieux nel 1996 in occasione del Centenario della morte di Teresa di Gesù Bambino, mi è capitato un saggio che propone un confronto di questo tipo (Nuit de la foit et doute philosophique). L’autore, Henri Hude, filosofo e professore di metafisica a Parigi, intravede nell’orgoglio dello spirito il male che serpeggia nella filosofia dei nostri tempi. Ma non bisogna essere dei filosofi o degli appassionati del ragionamento razionale per sviluppare il germe di tale “peccato”! Seguendo l’analisi del nostro studioso possiamo chiarirci subito che l’orgoglio dello spirito è, innanzitutto, negare il fine naturale della ragione che consiste nella conoscenza di ciò che è, di ciò che esiste; è, poi, pretesa di ricominciare daccapo, “come se non fossimo figli ed eredi”; è volersi rendere indipendenti da tutto ciò che ci ha preceduto e ci circonda; è costituire se stessi come autorità suprema in ogni argomentazione; è non ammettere nulla che sorpassa la nostra ragione, come se fosse la misura assoluta di ciò che può essere e di ciò che non può essere. “L’orgoglio dello spirito considera come una situazione di normalità per lo spirito il non rivolgersi all’Assoluto, il non conversale con Lui e il non consultarlo in nulla. Ma non contemplare Dio in ogni cosa e nemmeno cercarlo in ogni cosa, è sufficiente per finire di cercare se stessi in ogni cosa e di contemplare se stessi e, in fondo, si diviene il tutto”. E non ci vuole molto a capire che una tale situazione di autodivinizzazione non riguarda solo la filosofia! Quanti arroccamenti sulle proprie costruzioni mentali impediscono anche solo il semplice atto di accostamento tra uomini trasformati da “cercatori della verità” in “fantocci di divinità”.
Da una parte, dunque, c’è, in maniera dilagante, l’orgoglio dello spirito; dall’altra parte, poi, c’è la piccola via di Teresa che, con spirito critico e realista, dà voce alla ragione che cerca seguendo la sua stessa natura che desidera la verità: “canto semplicemente ciò che voglio credere” (MC 7 v°). L’atto di fede, il “voler credere” in un Dio non identificabile con il proprio orgoglioso “io”, diviene in Teresa l’atto stesso della ragione che, per onestà intellettuale, riconosce il suo intrinseco bisogno di “vero”, visto e contemplato nell’alterità dell’essere: “la contemplazione si fa nell’amore, il rispetto dell’oggettività del vero è un aspetto della purezza dell’amore che si unisce a ciò che esiste rispettandone la sua integrità”(H. Hude).
Per questo Teresa, attanagliata dalla notte della fede, può ribadire con la forza che le viene dal suo fiducioso abbandono tra le braccia del Padre: “canto semplicemente ciò che voglio credere”! A dispetto dell’orgoglio spirituale che non vuol dipendere da nulla, che si crea da se stesso per imporsi come sovrano e che finisce, molto presto, per essere invaso dall’angoscia.
Sottolinea il nostro filosofo: “poiché tutto ciò che esiste indipendentemente da noi ci sembra di troppo e ci rattrista, anche se tutto ciò ha un senso e ci fa segno. Noi rigettiamo questa immediatezza dell’essere, noi detestiamo una tale alterità che ci impedisce di credere che noi diventeremo l’intera realtà”. E così assistiamo ad un continuo affannarsi per riuscire, per imporre la propria persona e la propria opera e “l’angoscia ha paura di non ottenere salvezza prima di morire”, di non raggiungere quel “paradiso” minuziosamente progettato su misura del proprio ego. Ancora Teresa porta consolazione: “il Buon Dio non ha bisogno di nessuno per far del bene”(MC 3 v°), espressione forte da non interpretare come una sorta di atteggiamento quietista che sprona ad attendere ridicolmente a braccia conserte il continuo intervento miracolistico di Dio! E’ piuttosto un invito a divenire detronizzatori di se stessi, debellatori delle proprie verità autoconfezionate, ascoltatori della realtà. Contemplatori dell’essere, umili collaboratori del Regno: “servi inutili”.

M. Concetta Bomba

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