Nel cuore del mese di Nisan, due giorni sono dedicati da Israele alla memoria dell'evento fondante la proprie esperienza di popolo liberato, quella Pésah/Pasqua che, come rito perenne, rende tutti trasformati dal soffio del Risorto e liberati dalla Parola che rende veri...
Con le parole di Erri De Luca, anche questo giorno sia inizio di un cammino di cose fatte nuove, nel chiarore lunare di un tempo pieno e atteso...
(M. Chagall, "Exodus", 1952-66)
Pasqua è voce del verbo ebraico "pésah", passare.
Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza, ma continuamente in movimento sulle piste. Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell'energia di credere, scruta perciò ogni segno di presenza.
Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi. Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo "pésah", passaggio. Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca, è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai, chi non s'azzarda nell'altrove assetato del credente.
Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle Scritture Sacre, l'uscita dall'Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra Gerusalemme.
Sono due scatti verso l'ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un'altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso una più integrale resurrezione. Pasqua/pésah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere.
Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense. Restano inaccessibili le alture della fede.
Allora sia Pasqua, piena, per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muli e sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori ad ostacoli, corrieri, atleti della parola "pace".
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